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In giorni come quelli che stiamo passando, la maggior parte di noi è costretta a fermarsi, a prendersi una pausa e a restringere sensibilmente i propri confini, mentre altri (che non dovremo mai scordarci di ringraziare d’ora in poi) stanno lavorando con cuore, testa e muscoli, per portarci di nuovo “sulla terra ferma” (che non è minimamente paragonabile a chi la terra ferma la guarda da un gommone in mezzo al mare in burrasca, sia chiaro).
Sono giorni che sanno di stallo, di sosta e profonda riflessione, dove lo sguardo si scopre a vagare smarrito fra le terre desolate di quella che chiamiamo casa. Sarebbe salutare, forse addirittura costruttivo e salvifico, giocare a esplorare questi luoghi, esercitare lo sguardo sui dettagli, capire quante piccole questioni, quanti stupefacenti particolari, possano rivelarsi tremendamente preziosi davanti alla possibilità concreta di perderli.

William Eggleston, Untitled, c. 1973, conosciuta come The Red Ceiling

Ho scelto per questo una fotografia che, più di altre e solo in apparenza, rappresenta il nulla.
La prima cosa da fare di fronte a un’immagine del genere, in caso affiori un giudizio tanto brutale (il fatto che non mostri niente, che non racconti niente, che sia inutile), è porsi qualche domanda sui propri limiti più che su quelli del frame che ci sta di fronte. Ogni fotografia è un iceberg, occorre scendere in profondità per valutarne la reale portata.
Lo scatto, che non ha titolo, è uno fra i più celebri di William Eggleston, conosciuto come The Red Ceiling (Il soffitto rosso) o anche come Greenwood, Mississipi, 1973 a indicare molto semplicemente la data e il luogo della ripresa.
Nato a Memphis nel 1939, Eggleston comincia a fotografare intorno al 1958 principalmente in bianco e nero, ma individua presto nelle sorprendenti potenzialità delle variazioni tonali, il mezzo più adatto per raccontare il proprio tempo. Negli anni ’60 si rifiutava categoricamente l’uso del colore in campo autoriale perché considerato appannaggio della fotografia pubblicitaria. Solo grazie alla lungimiranza di John Szarkowski (l’allora direttore della Sezione Fotografia del Museum Of Modern Art di New York) nel 1976 è il primo artista a esporre i propri lavori fotografici a colori al MoMa, tirandosi dietro le critiche feroci dei puristi del Black & White (fra tutti Ansel Adams, che scrisse a Szarkowski una lettera particolarmente piccata sulla mostra).

Il colore, così saturo, luminoso e profondo, ottenuto con la tecnica di stampa del dye transfer, diventa in Eggleston immediatamente tratto peculiare, irrinunciabile, di una poetica del quotidiano volta a scandagliare il dettaglio, a portare l’attenzione su angoli nascosti, talvolta maleodoranti o insignificanti della città; su momenti di vita reale, banale, che conosciamo tutti, che riguarda tutti e costituisce la parte più ingombrante delle nostre esistenze.
Con lui il quotidiano viene strappato via dall’anonimato e appiccicato a una parete per farsi guardare, diventando poesia vibrante, a tratti commovente, un trionfo del particolare, dello scarto, di ciò che non ci soffermiamo mai a considerare. Una strada tracciata sapientemente da Walker Evans, che Eggleston rielaborerà attraverso il filtro goloso della cromia, aprendo la strada alle esperienze di fotografi come Stephen Shore e Joel Sternfeld, che ci mostreranno un nuovo modo, meno eroico e più terreno, di guardare all’America dei più, quella fuori da palchi e riflettori.

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Tornando alla nostra immagine, la prima emozione che mi sale dallo stomaco è un senso di attualità disarmante.
Il soffitto è uno dei pochi paesaggi che ci è dato di contemplare nei giorni assurdi che stiamo vivendo. La prima cosa che vediamo nitidamente una volta svegli e forse l’ultima, prima di spegnere la luce, quando decidiamo che è l’ora di dormire.
Purtroppo per i molti costretti in un letto, è l’unico panorama possibile e l’ultima porzione minuscola di mondo che ci resta negli occhi, quando ci rendiamo conto che è arrivato il momento di andarcene.
Sembra che Eggleston lo fotografi senza badare alle comuni norme di composizione dell’immagine. Eppure le linee che partono dalla lampada leggermente decentrata rispetto all’asse portante dell’immagine (più o meno l’angolo di muro che vediamo sulla sfondo), creano con i margini del soffitto, un curioso moto rotatorio antiorario che rende lo scatto fortemente dinamico e ci fa istintivamente pensare alle pale di un ventilatore, di quelli che comunemente potremmo fissare in quella posizione. Io li vedo ruotare questi bracci di legno fantasma, nella loro assenza percepisco il movimento dell’aria sul viso come un alito fresco.
In basso a sinistra sulla parete è disegnata una cornice (l’essenza stessa della fotografia: scegliere cosa sta dentro e cosa resta fuori), delimita un’area che non sappiamo bene come interpretare: presenta una divisione centrale e più in basso riprende il colore della parete. Potrei immaginare uno specchio nell’atto perpetuo di sdoppiare la parete di fronte che non ci è dato di vedere, o il suo esatto opposto, una porta, una finestra, (fittizie, fasulle), un confine chiaro e definito che non si fa attraversare, che non ci permette di guardare dentro e neppure di affacciarci fuori.
In basso a destra, nell’angolo, si vede parte di un poster che sembra illustrare una serie di posizioni sessuali messe in pratica da figure stilizzate di uomini e donne. Facendo una veloce ricerca online ho scoperto su Ebay che si tratta di un poster degli anni ’70, diviso in dodici riquadri con altrettanti approcci al gioco amoroso, ognuno corrispondente a un segno zodiacale diverso.

Henri Matisse, Armonia In Rosso, 1908.

Matisse, Grande interno rosso 1948

Matisse, Lo studio rosso, 1911

 

Lee Friedlander, il meno ossessionato dalla teoria tra i fotografi, una volta osservò quanta roba – quante informazioni non premeditate – andassero a finire accidentalmente nelle sue fotografie. “È un mezzo generoso, la fotografia”, concludeva in tono asciutto. [1]

 

Una fotografia, volente o nolente, racchiude nei suoi dettagli apparentemente trascurabili, preziose indicazioni sull’epoca in cui è stata realizzata. Questo semplice brandello di poster ci racconta che siamo negli anni ’70 e che questa stanza molto probabilmente appartiene a uno o più giovani, o comunque, nel caso di adulti, a persone abbastanza disinibite e ironiche. Lo stesso sistema di illuminazione (gli attacchi, i cavi, la lampadina), ha caratteristiche che, per gli addetti ai lavori, possono restituire informazioni temporali e geografiche riguardo allo scatto.
Inoltre, la fotografia grazie ad alcune sue qualità intrinseche, è capace di tirare su ponti invisibili con il passato e il futuro. In questo caso il veicolo, il medium, è proprio il colore: un rosso saturo, zuppo, fradicio mi viene da dire, così fresco che si ha l’impressione di restare macchiati appoggiando le mani alle pareti che delimitano la stanza. E al contempo una tonalità così profonda che diventa idea, pura astrazione, annullando le asperità del muro. Mi fa pensare a Henri Matisse, alla sintesi, alla semplificazione radicale delle forme, affogate in bagni di pigmento: pensiamo ad Armonia in Rosso del 1908, dove la terza dimensione si annulla, in favore di un appiattimento geroglifico, o in Grande interno rosso (1948) e ne Lo studio rosso (1911), dove il senso di galleggiamento degli oggetti nel colore è totale e ci porta con il pensiero altrove, verso visioni future, abissi della mente come la sala d’aspetto de La Loggia Nera ne I segreti di Twin Peaks (1990-1991) di David Lynch o l’ascensore che vomita sangue nello Shining di Stanely Kubrik (1980), entrambi autori fortemente influenzati dall’uso espressionista che fa del colore il fotografo di Memphis.

Tutto questo non è che un semplice spunto, un gioco o se volete un esercizio dello sguardo, per dire che scegliamo noi quanto i confini delle cose che ci riguardano debbano essere ampi.

 Still da I segreti di Twin Peaks di David Lynch, 1990-1991

Still da I segreti di Twin Peaks di David Lynch, 1990-1991

Still da Shining di Stanley Kubrik, 1980

PS: La foto che vi ho raccontato è stata inoltre scelta come copertina di Radio City bellissimo disco dei Big Star del 1974.

 

Alessandro Pagni

 

[1] Geoff Dyer, Introduzione in John Berger, Capire una fotografia, Roma, Contrasto, 2016.