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[Questo articolo è uscito sul numero 4/2015 de La Camera Chiara, magazine dell’Associazione culturale La Bottega Dell’Immagine]

di Alessandro Pagni

Era il male oscuro di cui le storie e le leggi
e le universe discipline delle gran cattedre
persistono a dover ignorare la causa, i modi:
e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato
scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato.

(Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore)

 

Il corpo.
Il corpo splendido, vivo, pulsante, che “esulta”, direbbe Battiato.
Il corpo “stupido”, certe volte, diceva Giorgio Gaber.
Troppo spesso fragile, martoriato, sfregiato, vilipeso.
Il corpo, quella macchina incredibilmente precisa e calibrata che ad un certo punto si inceppa per un niente e il niente comincia a crescere a espandersi come una macchia d’olio, una macchia scura e bastarda, che non sai da dove arriva e quanto possa essere tenace.

    ©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013

©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013.

E allora tutto diventa una battaglia, contro quel corpo che è l’unica vera cosa nostra: che all’inizio ci porta e dopo si fa portare, che ancora più oltre ci trasciniamo dietro come una zavorra disperata e patetica che non vuole lasciarci liberi di andare via.
Andare dove? A nessuno è dato saperlo, ipocrita e illuso chi dice il contrario, ma comunque andare.
Stefania Adami (una delle punte di diamante dell’attivissimo Circolo Fotocine Garfagnana già ospite su questo blog con la serie fotografica A dislivello del mare) analizza sulla sua pelle, mettendoci faccia e corpo, quel momento in cui qualcosa si incaglia, di colpo sbanda e improvvisamente tutte quelle questioni così imprescindibili che dettano l’agenda delle nostre giornate, diventano un rigurgito grottesco, come un sogno dato da una cattiva digestione.

©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013

©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013

Stefania racconta quel momento preciso in cui cambiano le priorità e dobbiamo rallentare, quasi fino a fermarci, per prenderci cura solo ed esclusivamente di noi.
Lo fa da donna, mettendo a nudo la paura della perdita, sia cruciale del vivere, sia terribilmente specifica della propria femminilità, del proprio punctum, in un’epoca che non fa sconti, un’epoca feroce fatta di mali altrettanto feroci e volgari.
Lo fa con il linguaggio che da anni la contraddistingue, spingendosi sempre oltre, con quell’istinto di chi è arrivata da sola al proprio “modo” di guardare fuori e riproporlo, distante da scuole e manuali, fatto di intuizioni semplici e grandiose.
Qui un bianco e nero tutto sommato morbido, elegante, come il suo approccio all’immagine fotografica, rende omogeneo il flusso di pensieri apparentemente onirici e vagamente surrealisti, che passano davanti ai nostri occhi. Immagini che rimandano ai compagni di Breton, alla scrittura automatica, alla trasposizione di sogni lucidi su carta fotografica. Troviamo indizi di questo nell’uso consapevole di ogni superficie riflettente, concava, piatta, circolare e poi manichini, bambole e travestimenti, sovrapposizioni di significati e piani immaginari. Ma è solo una scelta di stile che serve a portarci “dentro”, per dare modo a queste allegorie di fermentare, diventando vino capace di bruciare le viscere.

    ©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013

©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013.

E brucia lo stomaco, indubbiamente, perché il volgare tradimento del corpo, è un passeggero che sulle direttrici della vecchiaia o della malattia, aspetta più o meno tutti. Brucia questa serie perché il facile/difficilissimo impiego della fotografia per raccontare il sé e non l’alterità, è sempre un gioco controverso (e io lo so bene) che non contempla sfumature: o indispettisce e irrita chi guarda, o instaura un legame con lui, di straordinaria empatia.

    ©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013.

©Stefania Adami, La morte si sconta vivendo, 2013.

Già dal titolo (La morte si sconta vivendo) è chiaro che questo lavoro fotografico si presenta, non come una richiesta compassionevole di attenzione, come un comprensibile e nuvoloso piangersi addosso, questa serie più di ogni altra cosa brucia perché è un inno rabbioso alla vita, un inno alla “resistenza”, alla sempre luminosa e forte non accettazione.
E alla fine sia quel che sia, diocristo! Ma mai e poi mai, un darla vinta alle circostanze.
La vita degli altri ci lascia sempre straniti, nella fortuna o nella sfortuna, ci porta a inevitabili paragoni, ma non possiamo, anche quando sosteniamo il contrario, farne a meno. Perché siamo una sola razza e prima o poi, volente o nolente, la vita degli altri all’improvviso ci riguarda.

3 thoughts on “La cognizione del dolore per Stefania

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