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di Alessandro Pagni

 

I could stand the sight of worms
And look at microscopic germs
But technicolor pachyderms
Is really to much for me
I am not the type to faint
When things are odd or things
are quaint
But seeing things you know that ain’t
Can certainly give you an awful fright!

(Pink elephants on parade, tratto da Dumbo di Walt Disney)

 

Una delle visioni della mia infanzia che non sono mai riuscito ad archiviare in modo compiuto è sicuramente la sequenza, tratta dal film di animazione Dumbo della Disney, nota a tutti come “la parata degli elefanti rosa”. Il piccolo elefantino per dissetarsi viene accompagnato dal fedele amico Timothy Q. Mouse (da noi noto come Timoteo) davanti a un secchio dove è colata, per errore, un’intera bottiglia di champagne. Da quel momento si apre un sipario di quasi quattro minuti, in cui un nutrito gruppo di pachidermi rosa sfila compiendo evoluzioni psichedeliche, trasformandosi, cambiando in continuazione, dimensione, consistenza, tonalità, in una danza allucinogena a modo suo sensuale e ambigua, a tratti conturbante per il suo fluire inarrestabile. Qualcosa che si presta a piani di lettura differenti, ben lontani dal mondo dell’infanzia.
Associare le intriganti ambiguità riscontrabili in questo estratto dal celebre cartone animato della Disney, al lavoro della giovane fotografa di Melbourne, Prue Stent, che fa del gioco e della trasformazione la sua cifra stilistica, trovo possa essere stimolante. Non solo per l’ovvietà del colore rosa, onnipresente in quasi tutti i suoi scatti (o allusioni a questo), che è per lei (Vice lo racconta in questa intervista con la giovane artista visuale) simbolo di una femminilità che sembra continuamente misurare se stessa e i suoi confini, ma anche per l’attitudine nell’abbattere le suddette barriere per raggiungere un altrove dove il noto postulato di Lavoisier, per cui nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, diventa il cardine e il pretesto per complessi e caleidoscopici esperimenti visivi.

©Prue Stent, dalla serie Pink

©Prue Stent, dalla serie Pink

©Prue Stent, dalla serie Pink

©Prue Stent, dalla serie Pink

©Prue Stent

©Prue Stent

C’è in queste sue “misurazioni” un po’ dell’approccio di Francesca Woodman, per età e per un continuo cercare di riscoprirsi e indagarsi, ma sicuramente non con quel, prima malinconico e poi drammatico, ripiegarsi su se stessa, che ha fatto di Francesca (purtroppo e per fortuna) l’icona che è oggi. Possiamo trovare anche un’ interessante e non banale prossimità con certe riflessioni surrealiste per quanto riguarda la metamorfosi di oggetti ed esseri viventi, per quell’intrecciarsi fra loro che porta a vere e proprie fusioni, costruendo strutture di difficile identificazione semi-viventi e incredibilmente dinamiche. Penso al gocciolare e al liquefarsi di certi paesaggi mentali di Salvator Dalì, ad alcuni paradossi visivi di Magritte, ai solitari monoliti umani di Max Ernst e in fotografia intravedo similitudini con le ricerche di André Kertész sugli specchi deformanti o ancora con le intuizioni assurde sul corpo femminile di Hans Bellmer nel suo Anatomia dell’Immagine, ma il tutto squisitamente condito con la leggerezza del glamour, con abbondanti strizzate d’occhio al mondo della moda, creando immagini forti di questa ambigua sensualità gommosa e al contempo inquietante, supportata creativamente da abiti e oggetti commerciali.

©Prue Stent, dalla serie Pink

©Prue Stent, dalla serie Pink

Hans Bellmer, illustrazione da "Anatomia dell'Immagine"

Hans Bellmer, illustrazione da “Anatomia dell’Immagine”, 1957

©Prue Stent

©Prue Stent

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Max Ernst, L’angelo del focolare, 1937

©Prue Stent

©Prue Stent

André Kertész, Distortion, 1933

André Kertész, Distortion, 1933

Hans Bellmer, illustrazione da "Anatomia dell'Immagine", 1955

Hans Bellmer, illustrazione da “Anatomia dell’Immagine”, 1957

Con mistero e ironia, Prue mette in scena ossessivamente, come dentro a un sogno labirintico da cui non si riesce a uscire, infinite declinazioni dello stesso gioco che sembra portare con se anche un’altra costante oltre a quelle già messe in luce: c’è qualcosa di estremamente scivoloso (sia formalmente che simbolicamente) dentro a queste fotografie, un’armonia strana dove i sensi sembrano contaminarsi fra loro in modo sinestetico, i colori diventano sonori, armonici in senso prettamente musicale, le immagini tattili, inafferrabili, umide e vaporose, come se ci fosse un’idea alla base che rimanda alla meccanica dei fluidi o a quell’intelligenza liquida teorizzata da Jeff Wall.

©Prue Stent, dalla serie Rock Pool

©Prue Stent, dalla serie Rock Pool

©Prue Stent, dalla serie Rock Pool

©Prue Stent, dalla serie Rock Pool

©Prue Stent, dalla serie Rock Pool

©Prue Stent, dalla serie Rock Pool

Non a caso alcuni elementi naturali (acqua e aria in primis) pertinenti a questi concetti, sembrano giocare un ruolo chiave nelle costruzioni visive della Stent, andando a modellare la bellezza femminile per farla diventare un mistero indecifrabile e non del tutto rassicurante, restando comunque dentro una logica fortemente estetizzante e contemporanea, ma in continuo divenire.
Ed è nel contemporaneo che vanno cercati i riferimenti di Prue, il suo immaginario visivo, la sua condivisione di intenti.

©Prue Stent

©Prue Stent

Penso al continuo intrecciarsi con gli elementi della natura dei “figli” di Bill Brandt, quei fotografi tesi a una perenne ricerca di mimesi e dialogo con l’ambiente circostante, come i coniugi ParkeHarrison nelle loro surreali meditazioni sul futuro dell’uomo sulla terra o Arno Rafael Minkkinen, il fotografo dei “mutaforma”.
Ma ancor più, la sua freschezza va letta sulla scia luminosa lasciata da Ryan McGinley che ha inaugurato, con nomi come Shae Detar, Olivia Bee, Hannah Altman, una nuova frizzante stagione della fotografia, che gioca sull’attimo, sull’urgenza di vivere, su una bellezza teneramente arrogante fatta di sensualità acerba, ribelle e carica di energia.

Ascolto: Moloko, Pure pleasure seeker

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