
03 0ttobre 2020.
Inaugurazione del Museo del Paesaggio di Castelnuovo Berardenga
A inizio gennaio, il Museo del Paesaggio di Castelnuovo Berardenga, tramite Valentina Lusini, docente di Antropologia dell’arte e delle rappresentazioni, incaricata di occuparsi della realizzazione dei contenuti in vista del suo nuovo allestimento, mi ha commissionato una fotografia destinata a un grande pannello posto all’ingresso degli ambienti museali. L’impresa non era semplice sia per le dimensioni che per il taglio dell’immagine, un frame con proporzioni vicine al formato panoramico, ma posto in verticale. Alla fine ho selezionato quattro scatti seguendo lo stile dei lavori che ho prodotto in passato, fondendo immagine fotografica e parola scritta. Colgo l’occasione dell’inaugurazione di oggi per mostrare qui l’opera finale scelta per il museo, il testo che la completa e le altre tre proposte che nei mesi precedenti il lockdown sono riuscito a realizzare meditando sul tema ampio e controverso del paesaggio.
Ringrazio Valentina per avermi voluto in questo spazio, per il grande rispetto e l’ampio respiro dato alla mia fotografia (e al testo che la compone e l’accompagna, che potete leggere qui sotto). L’allestimento è molto bello, i contenuti di grande interesse e la mostra temporanea di Luca Pancrazzi un stimolo notevole. Invito tutti ad andare a visitare il museo e il suo “vestito” nuovo.
Paesaggio, gennaio 2020
C’è un particolare del passato, una stupidaggine di quando ero bambino, che a volte mi torna in mente. È una cosa davvero piccola se si paragona ai fatti salienti, ai picchi e alle catastrofi di una vita intera. Ma ogni tanto questo vento scivola sui capelli e si piazza fra le spalle e la fronte, come il cappuccio di una vecchia felpa che non riesci a buttare.
Sono seduto dietro, nella Peugeot 309 dei miei.
Siamo in vacanza in Corsica, in un campeggio a Pinarellu a trenta minuti di macchina da Porto Vecchio.
Mio padre adora quest’isola almeno quanto la Sardegna, dove è nata mia madre. Con la differenza che qui non ci sono decine e decine di parenti, vicini o lontani, che si aspettano una visita e di conseguenza non ci sono neppure le interminabili discussioni con mamma per evitarli. Mio padre qua sorride più spesso, è un dato di fatto.
Un anno sì e uno no veniamo con la tenda, di solito verso la fine di agosto-inizio settembre, quando c’è meno caos e l’aria dal tardo pomeriggio diventa così fresca, che una maglia a maniche lunghe non si disdegna durante i giochi da tavola del dopo cena.
La sera ogni tanto raggiungiamo il paese per prendere un gelato. Nel fine settimana ci spingiamo fino a Porto Vecchio per una pizza, o a Bonifacio per una gita di un giorno. Durante il tragitto di ritorno, la macchina costeggia da entrambi i lati, distese di campi rischiarati appena dalla luna. I lampioni illuminano solo le vie principali di centri abitati grandi uno sputo e chilometri di spazi vuoti separano un paese dall’altro. Ricordo la sensazione fresca del finestrino contro la fronte, gli occhi affogati dentro tutto quel buio.
Lo stereo manda un pezzo di Venditti, “Mitico amore” o “Ricordati di me”, una di quelle, da una delle compilation estive che la zia si porta sempre dietro.
Gli appezzamenti di terreno, bruciati dall’estate ormai agli sgoccioli, nella mia fantasia accesa, somigliano a acqua immobile, distese infinite di acqua immobile, ai piedi della montagna. Babbo guida, ci pensa lui a noi e so che posso fidarmi di come ci pensa, di come si preoccupa che vada tutto bene. La musica riempie l’abitacolo di cuscini e coperte, anche se non ho sonno. E dentro di me, quel crederla acqua, l’erba secca lambita dalla debole luce riflessa dal nostro satellite, mi riempie di calma, di una pace totale, assoluta: una sensazione che inseguirò col nodo alla gola, per buona parte della vita. Vorrei che il viaggio di ritorno verso il campeggio non finisse mai, che tutto restasse incastrato dentro a questa bolla. Eli piccolissima sul seggiolino di fianco a me, io che non so ancora niente delle cose che il tempo porterà via, babbo che guida e mamma con i piedi sul cruscotto mentre canta: “È ritornato il tempo/Di stare ancora insieme/La notte passerà/E non avrò paura…“
Le Crete, a un paio di curve da dove abito oggi, sono l’unico luogo, il solo paesaggio, che è riuscito a risvegliare in me quel ricordo di una Corsica lontana degli anni ’80. Che sia un mare, anche questo, acqua che non è acqua, non credo si possa obbiettare in alcun modo. Come non si può negare che attraversarle, con altra musica, correndo o passeggiando, vagando al volante, aiuta senza dubbio a riconciliarsi con se stessi.
Questa cosa di guardare il paesaggio, di fotografarlo, è arrivata in un momento cruciale della mia vita, un periodo di estrema fragilità, dove ho creduto di aver perso il senso del reale, la sua splendida inquieta urgenza, per un altrove ovattato dove niente ha davvero sapore. È stato il panico dei miei primi quarant’anni, condito con le consuete insicurezze e un attacco a tradimento, acutissimo, di cervicale. Il paesaggio e l’incombenza di fotografarlo e quindi di guardarlo con la giusta attenzione, mi hanno guarito. Dall’Arbia al Castello di Leonina camminando fino a Mucigliani, nel nulla scandito da due alberi in solitaria. Dal ponte del vapore, lungo il fiume, arrivando a Campo Sodo per guardare il profilo di Siena e poi scendere a Usinina, risalire per San Giovannone. Fare in macchina a passo d’uomo tutta la strada di Medane e poi quella di Barbiano, fermandosi ad ogni casale diroccato o piccolo borgo disabitato. Lasciare il centro di Castelnuovo Berardenga, buttarsi alle spalle le colline senesi ed entrare nel Chianti. Da Asciano prendere lo sterrato di fianco al cimitero e restare rapiti, sù a Monte Sante Marie, per quel mare di acqua che non è acqua ma colline, macchie boscose e poderi, casolari come navi in vetta a onde vertiginose. Montare il cavalletto, aggiustarsi sulla livella, sull’orizzonte virtuale. Gestire i tempi, i diaframmi, pensare al taglio e alla messa a fuoco: a come la combinazione di questi elementi possa tornare utile, risultare funzionale a quello che c’è da fare, o addirittura “significare”. Sentire che intorno le cose si accasciano, si sgonfiano, il respiro diventa lento, il tempo stesso scorre in modo diverso. Anzi non scorre, non ha peso o importanza. Contano i campanacci di un gregge poco distante, che si muove compatto da una parte all’altra del prato, come una nuvola bassa e irrequieta. Conta il mistero di una volpe, morta a Ponsano dentro un fienile, circondata da piume di piccione. Conta il film mentale di lei la notte che stringe quell’ultimo pasto mentre lenta si disintegra per motivi che portano ad altre proiezioni ancora. E fuori daresti per certo il freddo pungente, il buio e forse la pioggia. Daresti per plausibile un temporale. Conta lo sbrano di una parete in mattoni che assomiglia a una porta e guarda fuori oltre la curva morbida di queste colline. E dentro ti rendi conto, a un certo punto (e forse lo dici pure a voce alta, invece di tenerlo al sicuro fra i pensieri), che c’è una tranquillità pazzesca, che mentre fai scorrere la ghiera dei tempi e sposti la messa a fuoco per cercare un punto buono a cui ancorare lo sguardo, ti sembra di essere tornato con la fronte contro il veto fresco del finestrino, mentre le pupille rincorrono il paesaggio che ti sfila davanti, tuo padre sta guidando e tu ti senti in salvo.



Alessandro Pagni
Grazie per le tue parole Efrem, il tuo parere è il tuo lavoro sono sempre per me una grandissima ispirazione 🙂
è proprio così, conta tutto. non conosco luogo che condensi più del paesaggio. e ognuno ha il proprio caro Alessandro.
che bello avere un pezzo del proprio in un museo a LUI dedicato: congratulazioni!