“E come è sgomento uno che ha da volare
e viene dal grembo. Come terrorizzato
di se stesso, passa per l’aria indeciso, va
come va un’incrinatura lungo un vaso. Così la traccia
del pipistrello fende la porcellana della sera.”
(Rainer Maria Rilke, Ottava elegia, Elegie Duinesi)
Quando Marco Polo si è trovato davanti a Kublai Kan (imperatore dei tartari), fra i molti agglomerati urbani partoriti dalla mente geniale di Italo Calvino, il mercante veneziano ha raccontato di Marozia, una delle città nascoste. Marozia è una città dalla doppia natura, che nel tempo vede l’avvicendarsi continuo del suo duplice volto: da un lato uomini-topo che corrono in branchi scomposti e furiosi, lungo cunicoli sotterranei, per contendersi briciole di felicità fasulla; dall’altro uomini-rondine capaci di volare, di essere veramente liberi e consapevoli. Il segreto di questa continua rotazione consiste nei gesti spontanei di chi la abita: tutto da un momento all’altro può diventare limpido e cristallino, tutto plausibile e possibile come uno slancio verso l’infinito, basta lasciarsi andare alla passione sincera, al piacere di fare, al mettere se stessi in qualcosa, al di là di un possibile tornaconto.
Marco Polo era certo che a Marozia, in qualsiasi momento, dalla città dei topi si sarebbe potuta sprigionare la città delle rondini.
Quello che però non sapeva è che dall’altra parte esatta del mondo, si trovava una città molto simile a quella da lui raccontata a Kublai Kan, ma rovesciata.
Si chiama Anéys questa città, ma non la troverete fra le pagine di Calvino, è venuto un altro viaggiatore a raccontarmela, direttamente dentro al mio “rifugio”.
Stefano Fantini, esploratore di universi minimi, carichi di significati e poesia, l’ho incontrato una sera di luglio del 2011, alla presentazione di una mostra collettiva, dove oltre ad aver avuto la fortuna di partecipare con una serie che avevo messo insieme in quel periodo, mi era stata data anche la possibilità di raccontare quello che è il mio approccio alla fotografia. Ci siamo trovati subito in sintonia su un punto: nessuno dei due aspirava a raccontare paesi esotici, saturi di colori e suggestioni, ma piuttosto condividevamo la necessità di raccogliere (a volte anche fisicamente) lungo i luoghi che misuriamo quotidianamente con il nostro passo incerto, tracce, impressioni e cimeli della nostra vicenda personale, da trasformare in scatole del tempo bidimensionali, capaci un giorno di parlare di noi e forse significare, al di là di noi. Con questa serie fotografica, Stefano racconta una parte di se, quella più controversa, relativa alle radici, al luogo che si ama seppur “con riserva”, al luogo che portiamo nel cuore “nonostante tutto”; e lo fa uscendo dai propri confini, tracciando impressioni adatte a qualsiasi città della penisola.
Decide di osservare i suoi vicoli, la piazza, gli scorci, con un filtro speciale e disturbante, capace di mettere a nudo alcune contraddizioni manifeste, normalmente offuscate da un eccesso di chiacchiericcio, dalla confusione di troppi input e distrazioni: quello che fa Stefano è focalizzare e azzerare i rumori, fermando strani, inquietanti momenti, in cui le cose appaiono chiare e affilate come lame.
Potrebbe somigliare a De Chirico quell’infinita sospensione metafisica di vuoti vertiginosi o al più introverso e onirico Rocky Schenck quando i suoi soggetti diventano ombre senza volto, come visioni incerte, in bilico fra la veglia e il sogno. Ma i vuoti del Fantini sono domande senza risposta, velate di delusione e dolore, e quella che fa è una resistenza muta, davanti a una città che sprofonda nei suoi volgari vuoti di memoria, nel suo ostinato perpetrare certe orribili “leggerezze”, così figlie di questa nazione, continuamente propensa a rovinarsi con le proprie mani.
Il risultato, a livello visivo, è una città “in negativo” (in senso squisitamente fotografico), è l’inversione del fermento che popola le strade, il caos di turisti e commercianti rovesciato nella solitudine di pensieri che nessuno vuole ascoltare.
Così un albero lacera in due come una crepa la Cattedrale e la presunzione di infallibilità dell’ancora dilagante e ipocrita “potere” religioso; un telone bianco da proiezione si frappone con arroganza al Palazzo Comunale, ricordandoci di quanto l’apparenza sia più attuale della consistenza e quanto sia palpabile la fragilità dei nostri governanti.
L’individuo ha poca scelta: o resta schiacciato dal peso di una situazione su cui non ha voce in capitolo o diventa una voce fuori dal coro, che procede da sola e priva di difese.
C’è un immagine che rende perfettamente questa inquietudine senza uscite di sicurezza, è la fotografia che si colloca al centro esatto della serie, come un perno intorno cui, questi pensieri “sbagliati” fanno il Girotondo: una parete divisa fra il passato di grosse sicure pietre squadrate e un intonaco che apre il sipario sull’ordine di mattoni che nasconde al di sotto; il selciato mostra sulla sinistra dell’immagine l’ombra di un uomo e sul muro la proiezione di un oggetto che somiglia a un semaforo, ma in realtà fa parte dell’arredo urbano antico; sulla destra il nero pece invalicabile di un cono d’ombra, dove tutto si annulla, dove tutto si perde e la sola idea di attraversarlo mette i brividi.
È qui che mi sono innamorato della serie di Stefano, è qui che ho colto il segreto nascosto nel suo sguardo e l’ho sentito così attuale e così vicino alle mie preoccupazioni: questo lavoro non è semplificazione ma sintesi, dove niente sembra accadere e al contrario tutto si contorce e morde all’altezza dello stomaco.
Dovreste conoscerlo Stefano, capire dalle sue parole che quel ragazzino in mezzo a una piazza vuota probabilmente non sta giocando ma sta sfidando la nostra placida quiete (e forse da adulto lo saprà fare in maniera ancora più violenta e arrogante), o quelle due persone lontane forse stanno tramando, è il caso di dirlo, nell’ombra.
Essere un viaggiatore ed esserlo fra le mura che ti hanno visto bambino è pericoloso, c’è sempre il rischio di non essere obiettivi, di lasciarsi andare a sentimentalismi, dando a mani piene il beneficio del dubbio.
Pur dolorosamente, non è questo il caso.
A differenza di Marozia, ad Anéys la città delle rondini non scaturisce più da quella dei topi, sono i topi che a periodi storici ciclici, tornano a invaderla, devastandola, strappandosi a vicenda dalla bocca, senza ritegno, anche l’ultima briciola e l’unica cosa che possono fare le rondini, di fronte a questa rovina, è alzarsi più in alto possibile, dare un ultimo sguardo ad un luogo, che loro malgrado portano nel cuore e poi, volare via.
Ascolto: Eels, Going to your funeral Part 1