Se le onde si mettessero a riflettere,
crederebbero di avanzare, di avere uno scopo,
di progredire, di lavorare per il bene del Mare,
e finirebbero coll’elaborare una filosofia sciocca quanto il loro zelo.
(Emil Cioran, Squartamento, 1979)
Ricordo il mio primo corso base di fotografia, nel 2003, forse 2004.
Era stato organizzato presso la biblioteca comunale del paese dove sono cresciuto.
Purtroppo e per fortuna, a causa di un problema credo di comunicazione e pubblicità, quell’anno contò pochi iscritti e questo ci permise di legare in modo atipico (fotografi, e soprattutto, aspiranti fotografi, sono persone notoriamente invidiose e il più delle volte portatrici insane di un ego già spropositato alla nascita) e di andare più a fondo nelle questioni della materia.
Le lezioni erano tenute da un fotografo eccezionale, Marco Barsanti.
Marco si porta dietro, da sempre, quella poesia e purezza primigenia dei grandi pionieri della fotografia.
La scelta del paesaggio come “missione interiore” (che sia abitato, mentale, di carne, o fatto di solitudine, comunque paesaggio), la sua pluriennale esperienza in camera oscura, i libri imperdibili per nutrire la mente e il proprio linguaggio (La camera chiara di Roland Barthes, La bellezza in fotografia di Robert Adams, Il negativo di Ansel Adams e altri), che fin dal primo giorno non mancò di consigliarci, raccontavano di lui il grande mistero del tempo e della pazienza: una dimensione della vita dove il lento, progressivo, svelarsi della realtà, porta alla luce particolari inaspettati, che vanno oltre la stessa natura e lasciano intuire una sorta di secondo livello di conoscenza, “laicamente” ultraterreno.
Siamo nel 1994, in California, nella seconda stagione fotografica della sua vita, quando comincia a delinearsi nella mente e nel petto, quella cesura che definisce ciò che è visivamente prioritario da quello che non lo è.
Marco torna in America, c’era già stato altre volte e la concezione del paesaggio di alcuni maestri indiscussi (come Ansel Adams o Minor White), la mistica del sistema zonale, il rigore che profuma di artigianato, sono elementi che sente parte della propria essenza. La sedimentazione di esperienze su esperienze, fisiche e mentali, per arrivare a gestire tecnicamente lo scatto e a pre-visualizzare le possibili conseguenze di scelte formali, diventano presto la scuola su cui forgiare lo sguardo.
Va dritto al suo obiettivo, sceglie i maestri del landscape, Morley Bear e John Sexton (uno degli assistenti di Ansel Adams), il primo amante delle grandi questioni filosofiche che ruotavano attorno al medium, l’altro maggiormente legato alla tecnica e concentrato sulle procedure di stampa e sviluppo.
Quel giorno, fra la fine di aprile e l’inizio di maggio, si trova a sud di Carmel, lungo la costa.
Il vento forte fa tremare il treppiede, una moquette di piantine grasse rende instabile la posa e il freddo prepotente assomiglia a un bambino bizzoso che si è stancato e ci tormenta per tornare a casa.
I tempi del grande formato hanno logiche diverse.
La scelta dell’inquadratura, la posizione, l’altezza, tutto si fa a occhio nudo o al più con l’aiuto di un cartoncino bucato che simuli nel foro le proporzioni della pellicola.
Il mondo capovolto sul vetro smerigliato va messo a fuoco con l’attenzione di un miniatore, dosando il basculaggio e il decentramento dei corpi mobili: è una pratica che si avvicina allo zen, alla meditazione trascendentale, è una forma di Tai Chi della visione, dove il gesto e la strada per arrivare al risultato, hanno un peso specifico e costituiscono buona parte della soddisfazione finale.
Devi volerlo quello scatto: come dentro una bolla di pace, immuni agli attacchi di un mostro gigantesco, che prende a morsi il tempo, riducendolo in brandelli, ci preoccupiamo solo dell’attimo, del proverbiale momento, calcoliamo il dettaglio, ogni nostro nervo è teso a ingabbiarlo, poi passiamo al successivo, in una somma di procedimenti che restituiscono in forma di immagine, quel groviglio mentale che ha inchiodato i nostri occhi su una determinata porzione di mondo.

Marco Barsanti,Scogli, Garrapata Beach, 1994, stampa al clorobromuro d’argento da negativo 4×5, intonata al Selenio.
E poi quando sentiamo intimamente che è giusto, lasciamo entrare la luce.
E nel determinare questo istante irripetibile, c’è il segreto che rende i bottegai dei semplici bottegai e i fotografi dei veri fotografi: la pancia, l’istinto, la scintilla che sa cosa è perfetto, non a prescindere, questo mai. Perfetto per noi.
C’è il mare intorno che schiuma rabbioso, in una danza brusca, a tratti convulsa, di andate e ritorni, di girotondi ubriachi. Non può fermarsi. Non si ferma mai, neanche di notte.
Paolo Conte questo lo sapeva bene.
Stare al di sopra di questi flutti, non è innocuo, guardarli dall’alto non fa sentire al sicuro: è una tensione minuscola come un sibilo, che ci tira per il braccio, ci chiama giù, dove perdersi per sempre è un pensiero quasi seducente, dove abbandonare la zavorra dei giorni sembra un richiamo innato della nostra specie.
Ancorati saldi, eppure fragili, stanno tre piccoli scogli che sembrano teste, affiorate dall’acqua, di uomini affogati in quel mare.
E poi c’è il mistero delle cose.
Lo scoglio più grande, dove per puro caso, per un pacifico gioco di luci e chiaroscuri, si apre un volto di uomo, si piega in una smorfia, quella che sembra la bocca. Le narici sono alte, l’arco sopracciliare disegna un’espressione di resa. Un monolite desolato, in balia delle onde. Quel secondo gradino di conoscenza, quel secondo strato di cose date dal caso e dall’inconscio, che diventano il punctum bathesiano della questione, il senso di una magia che precede di secoli la gelatina d’argento.
Ma che solo lei ci ha insegnato a registrare.
Questa è la prima fotografia incontrata nella mia vita, che sia riuscita a insinuarmi come una sorta di appetito, il desiderio dell’atto fotografico. Non la smania di ricreare l’identico scatto. Quella è una stupidaggine che tiene nelle sabbie mobili milioni di fotoamatori. È un altro tipo di aspirazione: instaurare un dialogo con le cose del mondo, che ci tolga dalla testa quella presunzione di supremazia tipica dell’animale-uomo e ci dia gli strumenti finalmente, per capire.
Ascolto: Pearl Jam, Tremor Christ