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di Alessandro Pagni

Il 6 Ottobre Efrem Raimondi inaugurerà a Siena, presso la galleria Lombardi Arte (via di Beccheria 19), la mostra Portrait For Sale, preceduta dalla lectio Presente Imperfetto e seguita, sabato 7 e domenica 8 dal workshop La sede del ritratto. Per l’occasione ho scritto un testo che andrà ad arricchire la bella pubblicazione in tiratura limitata edita dalla galleria, contenete le opere presenti in mostra fino al 22 ottobre, di cui potete trovare informazioni dettagliate qui e qui. Il testo, in anteprima nel mio Rifugio per pelli sensibili, è una meditazione sul senso del ritratto per Efrem dal mio peculiare punto di vista, partendo dallo stimolo di un unico, cruciale, scatto. Buona lettura.

La prima fotografia che ho visto di Efrem Raimondi, anni fa, mi ha spiazzato.
Un cocktail a base di imprinting, addizionato di una robusta dose di quel meccanismo squisitamente umano, che porta a riconoscere se stessi nell’atto creativo di un altro individuo.
Percepire che quella “cosa”, canzone, film, fotografia, luogo, installazione, in qualche modo parla anche di te.
Avevo questo scatto, fra le ultime pagine di una rivista specializzata, nella sezione “mostre” credo, per pubblicizzare un evento che lo riguardava.
Era il ritratto di suo padre, con la camicia sbottonata.
Solo dopo molti anni sono riuscito a collegare quella foto alla persona che l’aveva scattata e poi, in un secondo momento, ho avuto la grande fortuna di incrociare davvero Efrem sul mio percorso.
Quella fotografia, dove ogni solco sul viso, ogni neo, ogni segno della pelle diventa una diramazione carica di frutti succosi e giorni, stagioni come foglie appese e rami che vanno stringendosi in minuscoli sentieri senza uscita. Appendici ed evoluzioni di un albero che tiene al sicuro, in profondità le sue radici, salde, agganciate agli occhi, dietro le lenti, a quello sguardo che pare secolare, come un libro da cui attingere, su cui tornare, perché si ha l’impressione di non aver colto, fino in fondo, quello che poteva essere colto.

Efrem Raimondi, Mio padre, 1995

Efrem Raimondi, Mio padre, 1995

Questa foto oggi mi rimanda a un’altra, più piccola e impacciata: il primo ritratto, preso a tradimento, mentre mio padre faceva qualcosa di assolutamente banale, quotidiano, col solito grande impegno, immerso fino alla gola nei suoi pensieri.
Non era tecnicamente una gran fotografia, ma anche lì ci sono gli occhi, quegli occhi che colti di sorpresa mentre annegano in acque profonde, tradivano un’ombra di dolore, forse fastidio, la traballante incertezza con cui ha sempre affrontato (e affronta) la vita, cercando di seguire col rigore del suo carattere, la controversa disciplina del “fare la cosa giusta”, sempre, ovunque.
Diversa dalla fotografia di Efrem, distante anni luce, ma in fondo entrambe tasselli colorati dello stesso rompicapo, il Cubo di Rubik di essere figli e cogliere l’essenza dell’abisso che sono i nostri genitori, un tempo anch’essi sulla nostra sponda e un giorno forse, noi sulla loro, fra sogni e fatica, fra rimpianti e retromarce, ognuno con la propria cicatrice che somiglia a una smorfia, o nel migliore dei casi a una ruga perplessa. Perché alla fine ogni singola parte di noi ci somiglia, e contribuisce a definire quello che siamo, volente o nolente.

Il ritratto è prima di tutto un incontro.
Con se stessi.
L’alterità che ci spiazza e ci spezza, ci rimescola e poi, una volta addomesticata diventa uno specchio.
La sede del ritratto è quella dimensione impalpabile, quel altrove che dura un istante o dura ore, giorni, la vita intera, il tempo in cui la persona che ci sta davanti, a volte una porzione cruciale di quella persona, bloccata per sempre fra gli angoli di un frame, continua a prenderci a pugni, a fare l’amore con i nostri occhi, a secernere significati, a farli sbocciare con spasmi febbrili, che vanno avanti e indietro, salgono e poi scendono, come impulsi elettrici.
I ritratti di Efrem Raimondi suonano su frequenze sottili, pacchetti minuscoli carichi di informazioni e stimoli: c’è sempre più di quello che sembra, l’occhio chiede tempo, ha bisogno di farsi domande e poi stupirsi improvvisamente, scoprirsi parte di un dialogo intimo, trovarcisi dentro con tutte le scarpe, come una pozzanghera che sembrava un po’ meno insidiosa e prima che ci sia il tempo di rendersi conto della reale portata, l’acqua è ovunque.
Emidio Clementi, oltre la metà di un pezzo dei Massimo Volume su Robert Lowell, invita a riflettere su una cosa molto importante:

…consideriamo questo piuttosto che il resto / il peso di cose fatte male e fatte in fretta / cumuli di immagini sfocate su cui puntiamo il dito senza convinzione / solo per dire “questo sono io” / nell’illusione che ciò che siamo riusciti a dire fosse quello che avevamo da dire.

Un monito buono per qualsiasi fotografo (o essere umano).
Dove quello “sfocato” non va preso tecnicamente alla lettera, piuttosto è un invito a guardare bene, come faceva John Szarkowski nel catalogo (selezionando come immagine di copertina, la ripresa amatoriale di un ambulatorio, con in bella mostra una tavola optometrica da oculista) di una sua celebre curatela (The Photographer’s Eye), a guardare meglio, se il tuo mestiere o amore, o entrambe le cose, è quello di guardare.
Non so molto della vita.
A 37 anni scopro di avere gli stessi dubbi che increspavano la fronte a mio padre e gli facevano dire con gli occhi, mai con la bocca, quando lo sorprendevo perso nei pensieri: ma che cazzo vuoi?
Una cosa però la so.
Efrem sa guardare.

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